Dolce, come la lisca di un pesce...

Giorgio Rizzi
Pubblicato su "Como e dintorni" n. 74 - marzo 2010




Stavamo ancora digerendo il pranzo di Natale e gia’ i media, archiviata la ricorrenza ormai commercialmente obsoleta, propinavano consigli su come passare l’ultimo dell’anno.

A San Silvestro, quando il tappo dello champagne non aveva ancora toccato terra dopo lo schiocco augurale, la TV annunciava che era tempo di comperare la calza della Befana, salvo poi seppellirci con la pubblicita’ dei costumi di carnevale non appena la vecchietta dal naso bitorzoluto aveva riposto la scopa.

Approfittando di feste tradizionali, di ricorrenze inventate di sana pianta, oppure mutuate da altre culture, la societa’ del consumo non si ferma mai; se la gente non spende di suo, le opportunita’ si creano, si inventano, si importano, si impongono.

Ogni mese c’e’ una buona scusa per creare un’occasione commerciale messa li’ apposta per alleggerire il nostro portafogli, farci riempire la casa di cose inutili, gli armadi di vestiti che si indossano una volta sola, i pargoli di pacchettini infiocchettati.

In questo clima di acquisto selvaggio, alla faccia della crisi economica, i dolci la fanno da padrone; piacciono a tutti, gratificano il corpo e l’anima, zittiscono i bambini per un po’, sono riciclabili per il prossimo invito e, non ultimo, consentono di “non arrivare a mani vuote” senza affrontare spese eccessive.

Tuttavia la scelta non e’ facile: ancora una volta sono i media a dirigere il gioco, relegando a precisi momenti dell’anno o a particolari occasioni il tale o il tal’altro dolce.

Natale e’ fifty fifty tra panettone e pandoro, a Pasqua e’ d’obbligo la colomba, per carnevale non possono mancare le chiacchiere, San Valentino richiede particolari bon bon di cioccolato, confezionati nella stagnola blu e con dentro un foglietto di carta velina con su scritte frasi d’amore e cosi’ via.

D’altra parte chi cuccherebbe le ragazze se nel giorno degli innamorati si presentasse con un pandoro in mano?

E che figura ci farebbe un ospite che servisse il panettone alla festa della mamma?

Ci vuole poco per capire che anche chi e’ piu’ refrattario alle convenzioni ed ai messaggi promozionali e’ comunque condizionato da certe pressioni e da certe culture artificiali.

In mezzo a tutto questo bailamme di “imposizioni dolciarie”, una piccola ma significativa oasi di liberta’ culinaria e’ rappresentata da quello che dovrebbe invece essere il leit motif delle nostre tavole: i prodotti della tradizione, quelli cucinati dalla gente semplice, quelli che si preparano quando la stagione lo consente e non quando il calendario lo richiede, quelli che si conservano sotto un tovagliolo pulito e non in una scatola partorita dalla mente di un esperto di marketing,  quelli che, se consumati con criterio, non fanno male alla salute, perche’ dentro ci sono ingredienti poveri ma genuini e non schifezze chimiche.

A Como la tradizione dolciaria si chiama “resta”.

Le leggende relative alla nascita della resta sono molteplici; ogni pasticciere ed ogni paesino della provincia sono convinti di essere i depositari della verita’ storica ma, tra tutte queste memorie, a me piace ricordarne una in particolare, non perche’ pensi che sia l’unica ad avere dignita’, ma perche’ dentro ci sono tanti valori che caratterizzano la gente per bene delle nostre parti: l’accoglienza, la generosita’, il rispetto per le cose umili, la capacita’ di godere con poco, la parsimonia.

Si racconta che, a cavallo tra il settecento e l’ottocento, ci fosse un oste che nel giorno del suo onomastico non faceva pagare il pranzo agli avventori, fossero essi clienti abituali o semplici passanti; un modo semplice e generoso per fare festa insieme, condividendo quello che passava il convento.

A concludere il pasto quel giorno compariva anche il dolce, una vera rarita’ sulle tavole di quei tempi; certo non e’ pensabile che allora si servissero torte debordanti di creme sopraffine o altri simili prodotti dell’arte pasticcera: il dessert era poco piu’ di un pane dolce, arricchito dalle uova, dai canditi e da pochi altri ingredienti genuini.

Capito’ che un giorno qualcosa ando’ storto durante la lievitazione dell’impasto e il dolce comincio’ a gonfiarsi a dismisura, fino a debordare dalla teglia.

Erano periodi di miseria nera, gli ingredienti per rifare il tutto non c’erano e comunque buttare via tanto ben di Dio era un peccato mortale, qualcosa di completamente opposto all’antica cultura ed al buon senso.

Il bisogno aguzza l’ingegno e la soluzione salto’ fuori rapidamente: preso un bastoncino dalla legna usata per alimentare il forno, l’oste schiaccio’ la parte superiore dell’impasto, fino che il legno fu completamente inglobato nel morbido composto; poi, nella fessura creata dal bastone, infilo’ le parti che debordavano, adattando il tutto con l’uso sapiente del coltello.

Quando il dolce fu cotto, l’incisione longitudinale lasciata dal bastone, nonche’ i segni del coltello, crearono un disegno sulla parte superiore che fece esclamare all’oste: “Par la resca d’un pe’ss”, sembra la lisca di un pesce.

Da “resca” a “resta” il passo fu breve e con questo nome si giunse ai giorni nostri.

Puo’ darsi che la storiella sia vera; magari non lo e’ o, se lo fosse, e’ possibile che sia stata profondamente influenzata da un paio di secoli di tradizione orale.

C’e’ chi dice che la storia della lisca di pesce sia tutta sbagliata e che il “disegno” rappresenti la spiga di grano e simboleggi dunque la primavera, stagione di rinascita fisica e spirituale, cosi’ come il bastoncino, rigorosamente d’ulivo, annunci la Pasqua imminente.

Qualcun altro dice che il simbolo tracciato sul dolce sia una foglia di palma, perche’ la resta veniva consumata solamente la Domenica delle Palme, ma c’e’ chi obietta che a quell’epoca non c’erano dolci di Pasqua e dolci degli altri giorni.

Secondo questi ultimi la resta non e’ legata ad alcuna simbologia, ma appariva sulle tavole intorno a Pasqua solo perche’ era esclusivamente in concomitanza con le festivita’ piu’ importanti che la gente si sentiva di utilizzare un uovo in piu’ o una presa di zucchero in piu’, impegnata come era a sbarcare il lunario per il resto dell’anno.

Insomma, ce n’e’ abbastanza per accontentare tutti e per non defraudare alcun paese o alcun pasticciere della propria versione.

A me continua a piacere la storia dell’oste generoso che, al di la’ dei valori umani e morali contenuti, racchiude in poche parole quello che oggi e’ il dolce tradizionale di Como, poco piu’ di una pagnotta un po’ bislunga, con la pasta gialla e con infilato al proprio interno un bastoncino di ulivo, che la caratterizza indelebilmente.

Farina, burro, lievito, uova, zucchero, uva sultanina e frutta candita; ingredienti sani uniti a tanta sapienza ed abilita’, ad una preparazione che richiede numerosi impasti, a tante ore di paziente attesa, a chissa’ quale altro segreto, mai rivelato da generazioni di pasticcieri ed il gioco e’ fatto.

La resta e’ pronta e, con i delicati profumi che l’uvetta e i canditi le conferiscono, si presta bene a tutte le occasioni, tanto la prima colazione quanto il fine pranzo.

I vecchi la pucciavano nel vino rosso o nel caffelatte; oggi, che siamo piu’ stile’ e meno ruspanti, possiamo accompagnarla ai vini dolci o liquorosi, oppure gustarla nel cappuccino o davanti ad una tazza di cioccolata fumante.

Pero’, giusto per non prenderci in giro, il modo piu’ ghiotto per apprezzarla lo conosciamo tutti molto bene: che goduria rubacchiarne una fettina fuori pasto, quando sarebbe proibitissimo e fare contenti, una tantum, il palato, lo stomaco e lo spirito birichino che non smette mai di tentarci!

In fondo e’ un piccolo peccato di gola: non vale nemmeno la pena di confessarlo, soprattutto al dietologo.

Oggi siamo fortunati: per quanto in crisi, viviamo ancora nella societa’ dell’opulenza e per gustare un’ottima resta non e’ necessario attendere Pasqua, perche’ le pasticcerie la producono tutto l’anno.

Allora coraggio: offrire una fetta di resta e’ una buona occasione per mantenere vivo un pezzetto della nostra cultura, per non lasciarci sopraffare da miriadi di messaggi globalizzati ed e’ anche un buon modo per dimostrare la nostra ospitalita’ a chi viene da lontano.

E poi, detto tra noi, e’ anche una bella scusa per mangiare qualcosa di goloso, facendo finta che lo facciamo solo per non lasciare scomparire una nostra antica tradizione; in fondo la cultura locale vale bene un po’ di “rotolino” sui fianchi!